Un emozionante album fotografico realizzato dal fotografo Marco Tisi in collaborazione con il figlio Nicola Tisi, per ringraziare SANZIO RAGNINI il nostro fabbro per eccellenza, il suo lavoro e la sua storia (raccontata da Eleonora Mori)

SANZIO

Non è facile raccontare la storia di qualcun altro, soprattutto se parliamo di un uomo ultraottantenne, che da quando era poco più che bambino ha trascorso ogni giorno della sua vita “a bottega”, dove ancora oggi si reca ogni giorno per svolgere il duro mestiere del fabbro.

 

In questi settant’anni di lavoro Sanzio ne ha date di martellate … io posso confermarlo, visto che da dieci anni abito sopra la sua officina e non c’è stata mattina in cui io mi sia svegliata senza il rimbombante bussare del maglio o del martello. Per lui non esiste domenica, Pasqua o Natale; si lavora sempre!

 

Sanzio, “o Renato va bene uguale”, è il quarto discendente di una stirpe di fabbri, professione che la famiglia Ragnini si tramanda almeno dal 1800. E’ un conservatore, un tradizionalista e rifiuta il progresso tecnologico che rapidamente sta mutando le nostre abitudini cancellandone le origini.

 

Io condivido la sua teoria, “le cose fatte a macchina non possono avere le stesse cure e lo stesso valore delle cose fatte a mano e la conoscenza dell’apprendista più studioso e preparato non può eguagliare l’esperienza di chi batte il ferro da quasi un secolo”.

 

Ho trascorso del tempo con Sanzio per capirne di più sulla sua professione e su come è mutata negli anni, ne è scaturita una sorta di albero genealogico che proverò a rappresentare.

 

Sanzio (o Renato) Ragnini nasce il 2 marzo del 1933, ovviamente in casa, da mamma Elena Franceschi e babbo Urbino Ragnini. Ai tempi le esigenze famigliari erano ben diverse dalle nostre, un bambino faceva tesoro della fortunata opportunità di andare a scuola, ma spesso era costretto ad abbandonarla prima del tempo per dare un aiuto in casa. Infatti Sanzio entra al lavoro dal padre il 7 giugno 1946 all’età di 13 anni. La bottega si trova nel ghetto, dove resta fino al 1957 per essere poi trasferita “dov’è l’arco del ponte che collega il paese vecchio al paese nuovo”, sotto quell’arco, la bottega, rimane per più di vent’anni ma in tre grotte diverse. La sua memoria sulle vicende è lucidissima ed esordisce raccontandomi, come se fosse successo ieri, della “gelata del ‘56” che ha impedito a lui e a suo padre di lavorare per tutto l’inverno costringendoli a realizzare solo ferri per somari (ben 400 pezzi) da tenere di scorta.

 

Il maestro di Sanzio è suo padre Urbino (nato il 10 maggio 1894) fratello di Ludovico (nato nel 1898). Qui l’albero genealogico inizia a ramificarsi, infatti sia Urbino che Ludovico sono figli di Antonio Ragnini che ha avuto due mogli; la loro madre, Agnese, viene a mancare nel 1900 per una malattia. Con la seconda moglie, Venere, Antonio mette al mondo altri due figli: Renata nel 1907 e Cesare nel 1923.

 

Antonio e suo fratello “Giovanni detto Nanni, il primogenito” erano figli di Ottavione Ragnini.

 

Le notizie su Ottaivione purtroppo sono scarse, sappiamo che arrivava dalla Val di Chiana ed era sposato con una donna tedesca, ma Sanzio sa per certo che era già un “fabbro imparato”, la sua bottega si trovava in Piazza del Comune, vicina alla sua casa.

 

Antonio e Nanni iniziano il mestiere dal padre Ottavione all’età di 11 anni, “dopo la sesta” (elementare). Nel corso degli anni vengono affiancati da diversi apprendisti. Al tempo diventare fabbro era una bella opportunità, i genitori supplicavano il fabbro di tenere il loro figliolo in bottega a fare i lavori più umili pur di poter osservare e magari col tempo imparare il mestiere.

 

Nanni rimane col padre, mentre Antonio nel 1885 si trasferisce nelle fabbrerie del paese vecchio fino al 1890, anno in cui decide di mettersi in proprio aprendo la sua bottega nel ghetto. Proprio lì iniziano lo stesso cammino i suoi figli Urbino e Ludovico, sempre all’età di 11 anni.

 

Antonio muore ne 1948 e appena un anno dopo, Urbino e Ludovico prendono strade diverse: Ludovico si trasferisce altrove con il figlio Tonino, mentre Urbino rimane nel ghetto ma in una bottega più grande, dove Sanzio inizia il suo apprendimento.

 

Sanzio è padre di cinque figli avuti con la moglie Marcella: Elena, Dante, Marinella, Federico e Veronica. I due maschi si lasciano appassionare dalla professione del padre ed entrambi iniziano molto presto a lavorare.

 

Federico è il mio “secondo papà” (il marito di mia mamma) e mi racconta che spesso Dante rinunciava alle vacanze al mare con le sorelle e la mamma per rimanere “co’ i’ bà a pestare il carbone”. Perché il carbone fino a poco tempo fa arrivava in blocchi da 5 kg e andava spezzettato col martello. Sanzio mi fa presente che il migliore era il carbone scovuggio (!) che si otteneva dal ceppo di questo albero tipico della macchia circostante, ma era difficile da realizzare. Un tempo bisognava sudare per ottenere la materia prima ideale e un pezzo di legno per diventare un buon combustibile, subiva un processo di carbonizzazione e temperaggio con tecniche ben precise che, se non venivano rispettate, avrebbero dato un prodotto “che nniera bbono a ggnente”.

 

Sanzio e i suoi figli spostano la bottega appena fuori dal paese nel 1980, e lì restano fino al 1996.

 

I tempi cambiano, il ventaglio di richieste si allarga e di conseguenza le Officine Ragnini si espandono. Così nel 1996 la bottega viene trasferita per l’ultima volta nella zona artigianale del paese di Pitigliano, sulla strada maremmana 74, dove risiede ancora oggi. Nella sede attuale sono alloggiati grandi e moderni macchinari che Sanzio guarda con sdegno e sufficienza …

 

“il mestiere del fabbro negli ultimi 20 anni è andato decrescendo, insieme a quello degli altri artigiani. È sempre stato un lavoro intenso e faticoso al quale non potevi sottrarti, perché un fabbro era sempre necessario”. Venivano costruiti o aggiustati accessori agricoli come le zappe, i puntali, le falci o i ferri per i somari. Gli artigiani dipendevano l’uno dall’altro, ogni professione aveva la stessa importanza nel paese e vigeva uno spirito di scambio e di  collaborazione non basato sul denaro ma sul raggiungimento del risultato, che nella società odierna non sarebbe comprensibile.

 

Con l’avvento della tecnologia “mascherata da aiuto per l’uomo”, le professioni di una volta stanno scomparendo, ecco perché considero un privilegio avere l’opportunità di ascoltare i racconti di Sanzio che con i suoi aneddoti spiega molto meglio di qualunque libro.

 

Il ferro oggi è un materiale molto versatile, viene usato per costruire infissi, scale o elementi d’arredo; “raramente vengono a chiederti una zappa, figuriamoci di ferrare un somaro”, anche se Sanzio lo saprebbe ancora fare bene … e suo malgrado, le Officine Ragnini intraprendono questa nuova strada soprattutto dal trasferimento del 1996. Appena un anno più tardi Dante viene a mancare, segnando profondamente la famiglia, gli amici e i frequentatori della bottega. Sanzio si sofferma un attimo a ricordarlo: mi parla di lui come di un vero fabbro, “lui sì”, più indirizzato ai suoi insegnamenti, sapeva battere il ferro e lo aiutava, mentre Federico è stato sempre più innovatore (… ma detto con un po’ di risentimento).

 

Mentre le due versioni (di ieri e di oggi) di questa bellissima professione venivano portate avanti parallelamente e senza calpestarsi nella stessa officina, noto che Sanzio nel suo angolo tradizionale in cui siamo ora seduti a parlare, ha ceduto un po’ alla tecnologia. Vedo il grande maglio imponente al centro del laboratorio e quando glielo faccio notare, mi assicura che “sì, … però ogni lavoro viene finito sull’incudine!” perché, prosegue,  il maglio non è altro che un martello più potente, spinto da un movimento elettromeccanico; va su e giù con la stessa intensità e nello stesso lasso di tempo e “se dovevo fare sempre tutto da solo col martello … da mo’ che non c’ero più!” e continua: il ferro, quando è caldo non ha troppo tempo per essere lavorato (da qui il famoso detto…), non deve diventare incandescente se no poi andrebbe buttato. Il momento giusto è quando diventa “poco più di rosso” (e nonostante i suoi 83 anni e la vista un po’ offuscata, quel colore, lui lo sa riconoscere ancora bene). Quando il martello batte sul ferro troppo freddo, rimbalza respingendo il braccio in dietro; mentre sul ferro “pronto” rimane attratto, il colpo affonda e trasmette la sua impronta ed è in quel momento che bisogna lavorare ripetutamente e velocemente con tutta la forza di cui si è capaci. Ecco perché in questo senso un piccolo aiutino dal maglio ce lo possiamo concedere …

 

Un altro importante aspetto di questo affascinante mestiere è “la tempra”, ovvero una tecnica usata per rendere il manufatto realizzato fino a tre volte più resistente. La base è una miscela di acqua e olio, il valore aggiunto lo da il tempo (nel senso di condizioni climatiche). Infatti “se c’è tramontana ‘n va fatta!”. In pratica, una volta finito, il pezzo viene messo “a riposare” e raffreddando lungo il senso di battitura si succedono quattro gradazioni di colore: partendo dal bianco, a seguire oro, viola e infine cenerino. Quando quest’ultimo colore è ben evidente, si immerge il pezzo nella miscela per “fermarlo”. Alcune finiture potevano essere fatte anche dopo la tempra, per esempio nel caso di utensili da taglio, “una volta finiti e temprati venivano portati da Flavio (l’arrotino del paese) per far arrotare le lame”.

 

Passeggiando per l’officina Sanzio mi mostra fiero i suoi lavori, svolti nel corso degli anni; pezzi per me tutti uguali che lui invece riconosce uno ad uno e su ognuno di essi mi sa raccontare una piccola storia. I suoi lavori sono “firmati” con un “puntino” impresso su un’estremità … “è la firma dei Ragnini” mi spiega deciso, mentre io trattengo una lacrima di commozione.

 

Tra i lavori in corso in quel momento mi mostra dei puntali che gli sono stati appena commissionati, facendomi notare con evidente rammarico che se non ci fosse stato lui, nella zona, nessuno sarebbe in grado di soddisfare la richiesta di quel cliente.

 

Mentre batte forte il martello sull’incudine riconosco la sua immensa esperienza, e la noto soprattutto quando nonostante la fatica e la stanchezza dovute all’età, il desiderio di portare a termine un impegno preso è molto più potente della necessità di fermarsi un attimo a riprendere fiato e a riposare il braccio sfinito.

 

A proposito di incudine … non si rovina con quel martello?  (chiedo io, altamente impreparata). Sanzio sorride senza guardarmi e io capisco di aver detto un’assurdità. “Questa, ha più di me!”  mi risponde secco, “è del 1920!” e io non oso aggiungere altro. Ma lui che non lascia mai nulla all’immaginazione, prosegue raccontandomi “la piccola storia” anche sull’incudine, che venne acquistata da suo padre assieme ad un’altra incudine uguale e a una matrice. Provengono da Saint Etienne (Francia), perché un tempo lì c’erano abilissimi fabbricatori di armi e “arnesi per fabbri”. Siccome ormai sa che sono un po’ ignorante, Sanzio mi spiega anche che nel 1920 avere degli oggetti di questo genere provenienti da così lontano, era un evidente segnale di avanguardia e di ricerca della perfezione.

 

Tante cose ci sarebbero ancora da dire su Sanzio, e tante altre si possono solo “sentire” ma non si riescono a raccontare. Mi sento triste al pensiero che un giorno (speriamo il più lontano possibile) questo meraviglioso mestiere non sarà più praticato da nessuno e contemporaneamente mi sento tanto fortunata ad aver conosciuto Sanzio e frequentato il suo laboratorio, in modo da avere e portare sempre con me una testimonianza autentica del lavoro vero e incondizionato, del senso del dovere più forte della fatica e della soddisfazione personale prima del denaro.

 

Grazie Sanzio.

 

 

 

Pitigliano, 06 dicembre 2016

 

Eleonora Mori